Dalla “casa” alla piazza
Dalla “casa” alla piazza: essere ‘montessori’ in un contesto interculturale
di Maria Chiara Miduri
ex allieva, antropologa culturale, operatrice sociale
Anticipataria e senza l’esperienza della scuola materna alle spalle, la sezione Montessori della scuola primaria (all’epoca ‘elementare’) “Alessandro Manzoni” di Torino mi accolse senza troppe difficoltà nel settembre del 1987, sezione F, rispetto ad altri istituti.
Una classe mista d’età era quello che faceva al caso mio.
Il primo ricordo che ho è legato allo spazio, all’ambiente di classe e alla diversità di bambini che lo abitavano. Tutti quei materiali, così curiosi e così attrattivi, a portata di mano!
I lavori di gruppo, custoditi gelosamente, così come le ore dedicate all’approfondimento individuale sono ricordi preziosi che conservo nella memoria come momenti di incanto e vero apprendistato conoscitivo.
L’approdo alle scuole medie fu disarmante.
Il grande bagaglio di sicurezza personale e di metodo di apprendimento conquistato nei cinque anni precedenti fecero entrare me e altri miei compagni nella scuola media con la stessa gioia e motivazione cui eravamo abituati, ma non durò molto.
Pagammo a turno il pregiudizio verso il metodo che ci aveva formati e una velata invidia derivante da una visione elitaria delle sezioni montessori della città.
Nella nuova scuola ci appellavano in tono sprezzante: “I Montessori che pensano di sapere tutto”.
Una bolla spazio-temporale di tre anni che dava risultati che permettevano di sopravvivere in un ambiente così ostico, solo perché il metodo appreso in precedenza aveva posto fondamenta solide nel processo di apprendimento e nell’etica dello studio.
Il fatto che oggi, nel mondo, si facciano tentativi di integrazione del metodo Montessori anche nella scuola secondaria mi rincuora e mi fa ben sperare per il futuro.
Il metodo comunque, una volta acquisito, resta un patrimonio cui si può attingere non appena le condizioni lo permettono (recupero dell’autonomia, dell’autostima, ecc.).
Diversi, ma insieme, è meglio!
Il metodo Montessori mi ha insegnato a conoscere e apprezzare la diversità nelle sue molte forme.
Nella mia classe vi erano infatti ben due compagni diversamente abili di cui, a turno, una volta alla settimana, ci dovevamo prendere cura, provvedendo alle loro necessità.
Questa condivisione umana è stato uno degli insegnamenti più importanti che sono rimasti con me nella vita.
Mi ha trasmesso la sensibilità verso l’Altro, ampiamente inteso, l’importanza della reciprocità e della cooperazione.
Non so se il percorso che mi ha condotto a divenire antropologa culturale e del linguaggio, fino a un dottorato di ricerca, sia germogliato da qualche seme lanciato in quegli anni di innocenza scientifica e libertà di conoscenza.
Di sicuro, il metodo Montessori mi ha permesso di affrontare con sicurezza le tappe di questo percorso, con perseveranza, disciplina, metodo e concentrazione.
Oggi per motivi professionali e di ricerca, mi ritrovo impegnata ad operare in contesti sociali ed multiculturali di forte emarginazione, dediti alla lotta contro la dispersione scolastica e il sostegno scolastico.
Appena mi sono trovata immersa in questa nuova realtà, composta da bambini diversi per provenienza ed età ma tutti coinvolti nel superare le stesse difficoltà e nell’acquisire le stesse competenze in un nuovo contesto sociale; dopo averne sondato le criticità e subendo altalenanti momenti di sconforto e attimi di entusiasmo, mi è tornata alla mente la mia esperienza montessoriana, come una guida nel percorso da tracciare e seguire
Lo strumento del cuore? Le lettere smerigliate
Il centro socio-aggregativo dove presto servizio sia come volontaria (nel doposcuola medie) sia come coordinatrice (nel neonato doposcuola elementari dell’estrema periferia Nord di Torino) è un luogo dove si sperimentano diversi metodi di insegnamento e sostegno allo studio per bambini e ragazzi socialmente e culturalmente svantaggiati.
I mezzi non sono molti, come per tante altre realtà di volontariato, ma l’entusiasmo e la voglia di dare una chance in più a quanti passano dalle nostre aule è la vera linfa vitale che ci fa andare avanti giorno dopo giorno. Molti materiali didattici vengono recuperati in vario modo e usati in combinazione tra loro per raggiungere obiettivi di apprendimento; altri li costruiamo noi.
Nella primavera del 2014, in pomeriggio come tanti altri, durante un momento di pausa prima della ripresa dei corsi, facendo un giro tra le stanze del centro per rendermi conto del materiale a disposizione, scorsi appoggiata su uno scaffale della stanza dei compiti, una scatola di latta contenente delle lettere intagliate - non di legno ma di gomma piuma - pronte per un cartellone. Il kit era incompleto e chiaramente avulso da una realtà montessoriana.
L’attrazione, per me, fu immediata. Ne presi una in mano e improvvisamente, come una madeleine proustiana, mi sono rivista in quella bella classe, con in mano qualche lettera smerigliata impegnata a segnarla con il dito e poi a cercare di combinarla ingegnosamente con le altre per formare delle parole.
Ci passavo le ore. Quelle ore dedicate al lavoro individuale, in cui ciascuno poteva scegliere di esercitarsi con ciò che preferiva.
La stanza in cui mi trovavo si è trasformata per un attimo in quella classe e mi ha ispirata molto in un momento di crisi educativa con bambini stranieri, nel quartiere multietnico di Porta Palazzo.
Il senso di libertà e creatività dell’alfabeto mobile, così concreto nel suo tatto e così intuitivo nella sua funzione mi hanno fatto ritrovare l’entusiasmo necessario per aiutare bimbi provenienti da altri sistemi linguistici a superare, con serenità e senza inutili affanni, le difficoltà della letto-scrittura italofona.
Aver ritrovato quelle lettere mi ha fatto ulteriormente sentire a “casa”.
Ho pensato così che il potenziale del metodo montessoriano fosse un’enorme mancanza in un contesto urbano come quello in cui mi trovavo (e mi trovo) a lavorare.
Da quel momento, ad ogni occasione di progettazione condivisa e passaggio di conoscenze cerco di promuovere alcune tecniche montessoriane presso i miei colleghi - sostenuta moralmente (per questioni di distanza) - da altri operatori sociali che conoscono il metodo, ma non l’hanno sperimentato in prima persona, e che a Napoli ne fanno un uso alternativo in programmi di doposcuola, in quartieri di forte disagio sociale.
Del metodo ricevuto, ai bambini e ragazzi con cui lavoro, cerco di trasmettere soprattutto l’importanza del tempo: saperlo gestire nell’attività di apprendimento, saperselo dare, “sapersi aspettare”.
L’attenzione al lavorare con costanza, tenacia e metodo per raggiungere un obiettivo; costruire la consapevolezza delle proprie passioni e dei propri interessi, avere l’audacia di coltivarle e puntare all’autonomia. Nella realtà così frenetica il metodo può aiutare a recuperare presenza e concentrazione: due capacità che pagano tutta la vita.
L’apprendimento democratico montessoriano, l’attenzione ai tempi, alle esigenze e alle vere attitudini di ciascun individuo è ciò che fa al caso di un contesto di diversità culturale in cui tanti bambini e ragazzi, con necessità ed esperienze diverse, entrano in contatto ogni giorno e devono raggiungere degli obiettivi comuni ma al contempo individuali.
Una democrazia che non inganna ma tiene conto della diversità come fonte di ricchezza e valore aggiunto, che più si (con)divide e più si moltiplica.